Ho avuto modo di leggere, diversi anni dopo la sua pubblicazione, una precedente raccolta della Caliò, l’Affanno dei verbi servili (2005) e di averla apprezzata forse non abbastanza; la successiva lettura, gentilmente inviatami dall’Autrice di “Sulla cruda pelle” (2012), mi permise di cogliere un mondo poetico più vasto e compiuto anche formalmente. Ora la nuova silloge schiude un io poetico che sonda nell’esistenza e si dilata all’orizzonte del sé; denso, ricco come un pane che, assaporato, si riveli nuovo, o un vino che ad ogni nuovo sorso si arricchisca di profumi e gusto.
“Ci sono giorni che sono vite intere. Il mio giorno si chiama sabato. Ha la forma di un bacio lungo, l’odore del caffè e la voce di una vecchia canzone” (n. d. A.) Vista, olfatto, udito, i sensi della percezione a distanza, dell’annuncio di un incontro, ma anche della persistenza e della memoria: il tatto e il gusto, apparentemente sensi del contatto, della vicinanza, possono essere ingannevoli, perché, influenzati anche da fattori esterni, a volte vanno in confusione. Forse è per questo che ai primi tre è affidato quel “giorno che dura una vita intera”; “Ti tengo/…nel silenzio che fanno gli occhi/ quando spalancati sentono/…” vedere e udire e tenere, senza necessità di parole, o addirittura parole – sguardo “Sei salita/ che mi vede a bocca aperta/ in un giorno di finestre chiuse/” e sguardo che diviene respiro.
L’incipit di queste poesie ha spesso il lampo di una visione totalizzante, priva di confine tra dentro e fuori, che coinvolge subito il lettore o l’ascoltatore, invitandolo a non distrarsi “Cadono cose e restano/ cadute…/” vista e udito coincidono, ma subito oltrepassati i sensi, lo sguardo si fa interno e coglie la pazienza del piccolo, del nulla – lo zero – che nulla non è; anzi può ingrandire e dilatare immensamente l’unità.
Come lo zero paziente, che attende di essere reso “quantità” “qualcosa cerchiamo/ su cui posare lo sguardo/ senza tremare/ fra un rintocco e l’altro/ un sentiero piccolo di arbusti/ promette giorni di fiori a venire” il tempo scandito e altro da sé, non fa tremare la Poeta, poiché sa cogliere i segni del futuro anche in piccole cose, concrete e insieme simboliche; altrimenti non le basta essere chiamata da qualcuno, non basta per non perdere ogni giorno un po’ di vita “…intermittente/ l’illusione di esserci perché/ qualcuno dice il nostro nome/ incidentalmente/ a ogni passo/ si perde vita…”
Nella sezione “La forma detenuta” si collocano alcune delle poesie della precedente raccolta, mentre “Di tu in noi” che dà il titolo alla silloge, schiude nei versi più che il dolore, l’amore che si rivela forte quando “…non si muore mai del tutto, si resta vivi nel punto più molle dell’anima di chi rimane, si resta lì come luogo della mente.” (n. d. A.) Il TU esprime la pienezza del soggetto, della persona che continua ad esistere nel NOI, realmente esistente proprio in forza di quel TU “Di tu in noi/ tengo ogni cosa/ perfino i refusi/ delle ore metodiche”; anche le cose “sbagliate” o imperfette!
l’Autrice ben sa di non poter “trattenere” solo con la volontà o con la memoria, bensì può “toccare” – entrare in relazione – attraverso quel che rimane “nostro”: le canzoni, i “numeri”, i dialoghi sulle stelle, l’essere stati “bambini” ; in un racconto ininterrotto e dolce nella sua quotidianità “..ho da raccontarti le scarpe/ sul terrazzo e l’uccellino/ che ne ha fatto un nido” Il verso, lungi dall’essere gravato dal lutto dell’assenza ha “imparato il peso delle formiche” : così può serbare, portandolo tra le braccia, il peso lieve di un amore-presenza.
L’ultima sezione, “Note di testa” richiama la scienza dei profumi, in particolare la prima percezione olfattiva e non solo, evocata da un aroma, solitamente per componenti intensi ma molto volatili: la scelta di posizionarla in coda, come un sigillo, sembra metafora di un continuo rimando all’inizio, di un anello della memoria che rende eterno il presente dell’Autrice; e insieme – nell’apparente contraddizione di un prima, fatto conclusione – la libertà della Poesia, “follia dionisiaca” sottesa ad ogni forma di esperienza razionale e sensibile.
Cade anche l’ultimo vento
ogni cosa è sola
nel risveglio che trema
come il cespuglio arruffato
dalla fuga di un uccello
non so più nominarti
se non nel pugno stretto
e indolenzito
ricomincia il giorno
a consumare lento
le suole
e noi
con aria da passanti
moriamo a strattoni nel rumore
secco del desiderio in ceppi
ma ancora
sorveglio le tue foglie
e mi attardo a guardare
il modo che ha il sole
di far colare la luce
sui muri
………………
E forse sei tu
questo fragile volo di farfalla
che bianco mi prende gli occhi
all’improvviso
ti dico ciao nel dubbio
ti parlo
sono giorni
improbabili e insistiti
e forse sei tu
………….
Si fa sottile l’anima
nella precisione del taglio
e non è chiaro
se arriva o se ne va
nell’equivoco dell’aria
che manca
tutto
è contrazione
……………………….
Lungo la linea disorientata
della stanchezza
nella deriva del corpo rotto
è una pausa di preghiera
per gli occhi desolati
lo sventolio steso dei panni
…………….
Sulla soglia dell’ora
che non torna e trasparente
mi vive intera
nel forse di ogni passo
a ridosso del silenzio
tu mi parli ovunque
Cettina Caliò, Di tu in noi, Ed. La nave di Teseo, MI, 2021
Cettina Caliò è nata a Catania nel 1973; perito commerciale, ha compiuto i suoi studi presso la Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori di Roma e la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Catania. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni: le raccolte poetiche Poesie (2002), L’affanno dei verbi servili (2005), Tra il condizionale e l’indicativo (2007), Sulla cruda pelle (2012), La forma detenuta (2018) e l’opera narrativa Gravidanza emozionale (2008). Con la silloge I paroli nichi nichi, in dialetto catanese, nel 2013 si è classificata terza al premio nazionale “Città di Ischitella-Pietro Giannone”.