Cesare Boldorini è nato a Ronciglione (VT) nel 1950. Vive a Roma dove svolge la sua attività in una associazione sindacale.
Nel ’67 fu segnalato per la poesia inedita al Premio Vincenzo Cardarelli; nel ’69 ha pubblicato la raccolta Sono ancora un giunco (Regione Letteraria – Club degli Autori, Firenze); segnalato nello stesso anno al Premio del Centro Letterario del Lazio. Nel 1976 ha pubblicato Appunti di viaggio (Gabrieli, Roma) e vinto ex aequo il Premio Letterario “Renato Serra” riservato ai giovani.
Cesare Boldorini ha anche fatto parte d’un gruppo teatrale, che ha, tra l’altro, rappresentato due suoi lavori: Caro figlio (teatro documento sulla Resistenza) e La Cagnara (una commedia).
E’ stato per diversi anni collaboratore di “Paese Sera”.
Le poesie di Cesare Boldorini
All’ombre declive
la luna alitava
l’aurora.
Il sole scuoteva
l’odore di stabbio
sui campi.
Mio padre mungeva
le mucche assopite
sul prato.
Mangime al pollame
portava mia madre
ancora per poco
nel giorno sospesa.
La folaga dall’occhio cristallino
accoccolata sul nido ormai vuoto
specchiava montagne pastello
e placide spiagge di rena.
Filtrava distratta controluce
una rossa canoa che scivolava
sull’acqua seminando pagaiate.
Balzò sul guizzo del pesce
improvviso fuor d’acqua
col becco appuntito e tagliente
la folaga dall’occhio cristallino
che specchiava montagne pastello
e placide spiagge di rena.
La donna criniera di malva
e occhi di bestia appassita
scavò sulla sabbia una buca
e attese l’aurora
L’aurora si spalma nel cielo
e appena il tepore si stende
ragazzo con occhi invasivi
affondò nella buca
La donna col corpo appassito
e occhi colore di malva
saltò nella buca di sabbia
felino agitato
S’udirono urla accordate
poi l’onda condusse a riflusso
un velo di sabbia e di mare
a coprire
Ti leggo oltre il vetro
impermeabile che erigi.
Sei calda e succosa
come le arance
rubate di prima mattina
dall’albero di Sicilia.
Non ridermi appesa al petto
come un bellissimo quadro.
Che ne faccio del canto
dell’usignolo se non posso
palpare le sue piume.
Mi nutro dei tuoi silenzi
e del pudore del tuo farti
leggere nell’anima solamente.
Oltre mi scontro e mi perdo.
Cammino fumo parlo con me stesso.
Saltella e si ferma a scatti
il cane dinnanzi roteando.
Viviamo di un muto intendimento
ma l’eloquio del suo sguardo
è appeso al mio silenzio.
Infame, godo delle sue attese.
Solo per effetto di gravità
calpesto l’inverno che scivola
dai greppi in rigagnoli fumanti.
Nell’ottica delle cose senza tempo
son io che sotto di loro scivolo intruso
temporaneo con egemoniche manie,
e un sasso solitario inciampa sul mio piede.
Mi penso lo sguardo in una meta.
Già. Mi penso, ma c’è una meta
incline ad essere pensata?
E rido rido rido.
In una conchiglia non mi sento
davvero racchiuso, ma cosa racchiudo
e cosa mi racchiuda non so.
Vestiti tranquilli di affari
alla buonora ho visto
amici prendere in branco
una metrò dopo l’altra.
Hanno voluto fermarsi
quei volti già furibondi
prima ancora che l’età
calmasse i rivoluzionari.
Soltanto arraffare di tutto
quel poco che sfama nell’attimo
senza nel dubbio sperare
il turno della conoscenza.
Soddisfatti di aver pagato
ogni tributo di giovinezza
satolli di vita non vissuta
dare la vita a detrimento,
frammento menomante di se stessi,
devallo improprio dal nulla.
Figli, quale sarà il futuro
che il mondo vi dipana?
Ecco, la mia anima è qui,
in effervescenza di poesia
riposa tutta
la mia inquietudine.