Cambiare di Stato, morire di natura di Narda Fattori

Nota di lettura di Anna Maria Curci

 L’incontro con la poesia di Narda Fattori è sempre un incontro con la pienezza dell’espressione. Questa affermazione iniziale vale anche per la sua raccolta più recente,  Cambiare di Stato, morire di natura  (CFR edizioni 2014): non è casuale che Bruno Bartoletti sottolinei proprio tale qualità nella prefazione. Per pienezza intendo una capacità non comune di abbracciare più ambiti, di metterli in comunicazione e di farli dialogare tra loro con ricchezza di toni e di immagini e con il ricorso a canali espressivi che appaiono così ben congegnati per dare potenza e profondità alla parola da suscitare continuo stupore per un vero e proprio talento «di natura». Non solo: il talento innato è stato coltivato, con l’amore e la costanza degli «avi contadini», è stato nutrito di letture, ampie e ben radicate, oltre che di un ascolto alle voci della terra, tutte, non solo quelle umane. Lucetta Frisa e Marco Ercolani hanno giustamente scritto in una lettera a Narda Fattori di «canto della Terra»: al canto della Terra mahleriano si intreccia, in più, e per tutta l’opera, la melodia, dal semplice al complesso, del ‘cantico dei viventi’, cantico di lode e di dolore, cantico del commiato e del ricongiungersi, cantico dello sdegno e dell’amore, cantico della sosta e del transito, cantico della roccia che resta e del fiume che scorre. È un cantico che non disdegna, anzi, sembra a tratti prediligere i suoni aspri, il suffisso –aglia («sparpaglia», «abbaglia», «sterpaglia», «mitraglia») di montaliana memoria, che non teme lo scontro e l’attrito; è lo stesso cantico che si rivolge, tuttavia, in tono amorevole e con l’affetto che si tributa a i propri lari, al mondo del mito.  Cantico di vita e di morte insieme, dalla «entrata in scena» tra fitte di puerpera alla scelta – spartiacque, bilico e bivio a proprio rischio- tra «dramma» e «avanspettacolo». Su tutto questo veglia e vigilia il pensiero «erratico  errabondo mai estatico», come l’io poetico dichiara in un endecasillabo che si impone per densità espressiva.

Anna Maria Curci

* * *
Incontro un ricordo sulla faccia
imbronciata di una luna rossa e tonda
che segue il mio cammino
di vaghezze e disarticolate ossa
sì che ogni passo è testarda volontà
di  procedere non ho trovato la panchina
adatta alla forma che mi tesse il pensiero
erratico  errabondo mai estatico.
Nel cono di luce punto fermo
del lampione che seziona la notte
non cerco esclamativi né interrogativi
mi metto in fuga disperando la visione
dell’ultimo scontro frontale.
Fu così che conobbi la punteggiatura
i puntini di sospensione la virgola
per ripartire dopo che la brina ha gelato
le spine in arabeschi che raggelano
ho trovato una treccia salvata
da una sforbiciata di tanti anni fa.
riparto da un punto e virgola
e da uno sberleffo che mi fa bambina.
(p. 24)
.
*
Mi guardano dall’interno i miei morti
non hanno vertici e segmenti
retta delle assenze senza  abrasioni
soffiano una brezza sul mio cuore
non mi guardano dalle fotografie
non amo il cimitero in argento ornato
di chi già fu stato di chi non è più
no mi guardano da dentro sorridono
non mi chiamano aspettano la svolta
dentro un gran silenzio che ci abbraccia
e dipana con mano ferma l’infinita pace
non manca nessuno e hanno braccia
tenere per tenermi per mano per acconciarmi
i capelli in trecce i capelli nel tempo
più corti più breve il respiro il passo
e mi aspetta paziente c’è tempo
chi mi indicò la via i temi come si guarda
negli occhi come si stringe una mano
senza fare male solo per donare vi amo come non vi ho amato
vi amo come non vi ho amato mai
ora che s’avvicina la forbice di Atropo
al filo che Cloto con fantasia di colori
e molti nodi molti groppi poche ritrosie
tessé svagata talvolta con mani smarrite
l’orecchio teso a voci lontane.
(p. 27)
.
*
Dai portoni con serrature di sicurezza
sempre nell’ora che ci sembra finale
invochiamo il dio che non risponde
quello che non ha parole
e nel suo nome si sono ridotte
le case in calcinacci dove l’argilla primigenia
e a mille e mille si sono alzate croci.
Non c’è alcun tesoro celato là dove
gli arcobaleni si stremano in archi grandi
e più nessuno si stupisce dell’inganno
come la favola narra e la mente rifiuta.
Eppure siamo per scambiarci parole piene
per estrarre dolori come spine sottopelle
a sudare la terra per il pane
per meritarci i nostri avi contadini
con le mani di calli e compassione.
Ora siamo soltanto groviglio di serpi
ai quattro angoli del tempo
dentro i muri delle case con troppo silenzio
e dove  non si fa silenzio mai
per udire- pensare – girotondi infantili
di grandi allegri occhi scuri
c’è chi ha proibito ai bambini i girotondi
nei cortili del mondo
(p. 30)
.
*
I rebbi inetti di questa forchetta
raccolgono frammenti di carne
si fanno avvinghiare dagli spaghetti
infilzano ( oh)  fusilli e maccheroni
a volte un rebbo cede si piega
troppo dura la materia sasso puntuto
posata sulla tovaglia ha un suo onore
con le punte sollevate appena curve
la forma morbida dell’impugnatura
somiglia ad un cavaliere nell’armatura
invece è un don Chisciotte
che perde col tempo lo sguardo
così la forchetta scambia per pasta
le valve delle patelle e si fa male
quanto mi somiglia l’utensile umile
facilmente sostituibile a poco prezzo
ormai tutti i miei rebbi sono curvati
e più non riescono a farsi uncini
ma la forma ha una sua armonia scura
da ringhiera di balcone che consente
il riposo al pettirosso con l’aria per il volo
dietro l’angolo la storpiatura la ruggine
tutta corrosa la bellezza
cambiare di stato morire di natura.
(p. 43)
.
*
Non ho più un buon equilibrio
lucido corrimani in salita e in discesa
scrivo sulla carta qualche volta
e non salvo con nome in qualche file
dentro la pancia piatta del computer
scrivo quasi domassi il mondo
ma i pochi leggeranno parole smunte
di pallido inchiostro su carta bianca
che si perde anche il gesto della mano
che a fatica nuota fino al margine
cari saluti distintamente sua
un abbraccio e hasta la vita siempre
mi vedesse qualcuno lo sguardo
contratto su palpebre abbassate
che la vergogna travalica e mi rode
tarlo nel legno che fu tronco e foresta.
(p. 53)
.
*
La grammatica del dolore la sua punteggiatura
l’ho imparata con un vagito nell’afa di luglio
sono stati molti gli esercizi per la sua signoria
avevo il fuoco sotto lo sguardo basso
mentre mi piagavo e resistevo come al calcio un sasso
e ora che ho col tempo ed esperienze
la padronanza di tutte le declinazioni e le eccezioni
taglio via la talea marcita rigetto quel pensiero
nero che non buca il silenzio e incrina l’osso
la grammatica del dolore è sbocciata intera
e ha disegnato le mia forma la piega nuova
invasiva come la gramigna s’estende dalla guancia
alla caviglia e fiorisce sottopelle e più la strappo via
più prende terreno mi inseguirà come  la preda
il predatore
nascondermi non serve mi troverà ovunque
la luna al suo primo quarto ambisce farsi piena.
(p. 64)
2014-08-02