Parla di amore in questa raccolta di 78 sonetti romaneschi Anna Ubaldi; non solo di amore – passione e sentimento – ma di tutto quello che s’agita nell’universo amore: i rapporti tra gli amanti, i tradimenti, le parentele imposte e sopportate, i peccati, le dinamiche relazionali, la condizione femminile. Ogni cosa vede con occhi di donna non più giovane e per questo disincantati; senza perdere quello spirito trasteverino, o meglio testaccino, che mette alla berlina fatti e misfatti, relativizza le cose, strappa la risata – mai sciocca – nella terzina finale che pure, a volte, si immalinconisce o si ammanta di poesia e filosofia.
“’Na chiacchierata, un goccio, du’ storielle/ e a l’aurora de corza cor fiatone/ tornà a casa, co in mano cento stelle.” ecco un esempio di chiusa colma di leggerezza e significati; oppure in altri versi finali che concludono il sonetto “So’ Stanca” “E a la fine c’è pure er moruxorio/ che quanno a serafino je sfaciola/ devo esse pronta ar gioco sussurtorio” dove la Poetessa fa emergere le contraddizioni della condizione femminile, che non si risolvono del tutto né con l’età, né con il progresso sociale.
Altrove l’Autrice riflette sulla Storia, evocata ad esempio dalle rovine di Ostia antica, con occhi distaccati e insieme attenti alla realtà che le si mostra “E le case e li templi se svotorno/ Mo ner teatro stesi a li gradoni/ guardamo er sole sur finì der giorno.” E in una sintesi che è tutta poetica, riferisce il finì der giorno non solo al tramonto della giornata, ma anche a quello della vita, quando le domande perdono di senso o non ricevono risposte, su di sé o sul mondo. La medesima disposizione d’animo e di sguardo lei rivela nell’osservare il creato in una notte d’agosto “A contà l’astri se perde la raggione/ mejo penzà che in fonno sor Clemente,/ so breccolette de la creazione.” e con la minuscola, più che rivelare l’assenza della Fede, ne evoca il dubbio, associato ad un atteggiamento umile, quasi socratico.
Del resto, per la Ubaldi, il tempo è scandito dagli anni “che è mejo da scordalli” insieme ad anni “che nun se fanno ricordà”, e altri che “l’acqua va pe l’orto…dureno gnente e cianno er fiato corto”; senza fare preferenze di persona, distribuendo “gramigna tanta e n’anticchietta grano”.
Unisce con i sonetti, foto di viaggio, racconti di svaghi con le amiche, sfoghi per avere un figlio veggetariano o ancora dentro casa; sempre usando un dialetto non accademico, vivo, perché quello che conta è racchiuso tra le parole: lo spirito della Città eterna “M’ha fatto du’ cojoni sora Ama’/ co’ la storia der bio e der naturale/ che m’è venuta voja de magnà/ ‘na porchetta d’Ariccia da un quintale!” o il lirismo delicato e originale, che dice un momento di quiete riflessiva “Poi ner giardino al lato der convento/ me so assettata vicino a Fra’ Bernardo/ e ner silenzio ho inteso parlà er vento”.
Anna Ubaldi usa l’io narrativo per dare voce a uomini e donne che condividono desiderio e bisogno di amore non vergognandosi dei propri limiti e contraddizioni; attraversando il tempo, senza essere diversi o diverse dall’umanità romana pennellata da Belli, Trilussa, Dell’Arco o Scarpellino.
A braccetto
Nun ce se crede, riéccoce a braccetto
dopp’anni de silenzio e de distanza,
semo cambiati tanto ne l’aspetto
però de drento nun ce sta varianza.
Er soprannome tuo era “Pescetto”
tu’ padre Leo ciaveva la paranza
e venneva er pescato su un banchetto
a Ostia, proprio dietro la Finanza.
Assieme giochevamo ‘nzino a sera
senza straccasse mai pe fame e sete,
nisconnarella e palla proggioniera.
Er tempo passa e come le comete
riappari in cielo a illuminà la sera
e l’antico prodiggio se ripete.
Ar cinema
Ar cinema ce annamo er martedì,
prezzo ridotto pe’ li penzionati,
semo un gruppetto: io, Flora, Mimì
e Lea quella c’abbitava a Prati.
S’accommidamo ne la fila G
cappotti sur sedile ripiegati,
spargemo intorno odor de pasciulì,
capelli fatti e occhi un po’ truccati.
Pe la tosse ciavemo le mentine,
si c’è da piagne un par de fazzoletti,
semo contente come regazzine.
Capita quanno meno te l’aspetti
che quarcuno te dà du’ parpatine,
te abbozzi, a litigà nun te ce metti.
Lo scarparo
Venanzio lo scarparo de via Po
quann’è fine staggione fa un sacchetto
e ce ‘nfila le scarpe un po’ retrò
rimasteje invendute ar negozietto.
Sò decortè cor fiocco roccocò,
pantofole da vecchia cor merletto,
sandaletti de sughero bordò
e galosce de gomma cor tacchetto.
Me bussa a casa co’ ‘sto bendiddio
e fa: -Questo è pe voi sora Domè
so scarpe che a buttalle so restio.
E io nun ciò core de dije che
nun me garbeno, nun so a gusto mio.
Ma lo ringrazio e je fo er caffè.
Anna Ubaldi, Eh l’amore, l’amore, Ed. Cofine, Roma, 2021
Anna Ubaldi, nata a Roma, si è occupata di problemi sociali e di emancipazione femminile, lavorando da dirigente della Regione Lazio, con passione e impegno, tanto da ricevere l’onorificenza di Commendatore. Scrive da anni sonetti romaneschi nei quali, con stile garbato e umano, descrive la visione femminile sul mondo e sulla società. Ha pubblicato: “Magna bello de nonna (1992); Me corcava de botte (2001); Dovesse capità (2010). Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, anche in Campidoglio.