Anatomia dell’andanza in “Piccoli versi” di Caterina Martino

Recensione di Ombretta Ciurnelli

 

È uscito in settembre per i tipi de L’Erudita (Roma 2022) Piccoli versi di Caterina Martino, una poeta arbereshe di nascita e umbra di adozione.

Nel titolo della sua raccolta si può cogliere una dichiarazione di poetica che sembra rimandare a una dimensione minimalista. Nei testi, infatti, non mancano situazioni/oggetti che ricordano la quotidianità: un tavolo di cucina, caffelatte e pane caldo, compiti da correggere, una tazza blu. Inoltre la raccolta si dipana in una sintassi piana, con un lessico non lontano dall’uso quotidiano in cui si coglie, tuttavia, oltre a una dimensione colloquiale, attenzione al ritmo, particolare cura nella scelta di aggettivi e un’intensa valenza metaforica delle situazioni considerate. Le liriche, che non hanno titolo, sono numerate e ciò sembra dilatare la potenziale polisemia della poesia.

All’apparenza, quindi, Martino ci propone un racconto poetico semplice, in cui nel denso percorso che compie nella memoria di affetti, di tempi e di luoghi si coglie una profonda e personale ricerca del senso del nostro vivere, di quella che, con efficace sintesi, è chiamata andanza, a indicare un insieme di avventura e ricerca pur nella progressione del tempo che – inevitabilmente – presenta i suoi conti. Oltre a scoprire la propria finitezza, a cercare risposte a domande che ci incalzano, si conquistano anche resistenze a condizioni che affliggono e così dolorose assenze possono trasformarsi in diverse presenze. Altrove c’è anche la pienezza del vivere, l’appagamento per ciò che ci è dato: per la luce che a volte ci investe senza volere oppure per l’indignarsi ancora di sparuta minoranza [], per le montagne da cui vieni e quelle che hai di fronte.

Nelle poesie di Caterina Martino emergono curiosità e stupore, oltre alla volontà di ricercare o stabilire sintonie, collocandosi in armonia con i luoghi e con i tempi, quelli della giornata, quelli meteorologici o con le stagioni o i mesi dell’anno. Il tempo è correlativo oggettivo di stati d’animo o modi d’essere che segnano l’andanza. I cieli di marzo, ad esempio, istigano al dubbio, generano confusione: da ciò la metaforica potatura di vecchi meli o dei rami di un ciliegio, mentre maggio, pieno di fiorite promesse, dà il senso dell’effimero.

Così le liriche ci conducono dalle piccole cose a una visione ricca e personale della vita attraverso le contingenze più diverse: la memoria emotiva di luoghi, di tempi, magari di un compleanno o di un’arrampicata di capra felice in montagna, della vecchia casa nuova, delle suggestioni di un mattino, quando il tempo sembra più lento.

Sul piano degli spazi sembra prevalere la dimensione urbana vissuta in una sorta di sincretismo geografico per cui può accadere che, percorrendo un vicolo di Perugia, città in cui l’Autrice vive, ci si ritrovi a Lisbona o che si ri-viva negli spazi quotidiani quell’atmosfera kafkiana di Praga, in una dimensione che coniuga magicamente la concretezza di un luogo con la viva memoria di un altro. Altre volte è solo nostalgia quando, ad esempio, se ci sono un vecchio seduto e dei panni stesi, il Sud e il mare, che ne sono evocati, restano lontani.

Sia nel ricordo di assenze sia negli incontri e nelle suggestioni che colorano la città emerge il bisogno di compresenze e di fratellanza, di mani allacciate nell’andanza che rimanda ad Aldo Capitini e alla sua apertura al tu-tutti, come nei versi E se invece che le voci abusate e consuete volte a sovrastare io e te facessimo un canto / di quelli antichi e ingenui.

Quella di Caterina Martino è prevalentemente poesia lirica, ma pur sempre in ascolto dei rumori del mondo, come il grido di battaglia o i morbi dilaganti, con l’auspicio che piccoli moti rivoluzionari possano cambiare la realtà e con la convinzione profonda che ciascuno debba fare la sua parte.

Nella raccolta è rintracciabile una riflessione metalinguistica che parte dalla lingua madre, l’arbereshe (la lingua chiara dei tuoi vecchi / e dei tuoi monti), ormai solo un canto antico e lontano. Nella poesia incipiale, in cui si ricorda la morte del padre, Bi, che in arbereshe significa figlia, è la prima e ultima parola. Il penultimo testo della raccolta, inoltre, si apre con tre versi in quella lingua antica che accorcia le distanze (E moj ti lule e fareghjò / E ma moj ti lule e fareghjò / E doja te dja se fijo). C’è inoltre un cenno alle particolari sonorità della lingua di Perugia (il secco senz’acqua di una lingua con poche vocali) e non manca un riferimento alla dimensione multietnica in cui viviamo: i fiati di lingue diverse ai finestrini di un autobus.

Sul piano dello stile spesso Caterina Martino predilige l’enumeratio, declinando un contesto o un’emozione in diverse possibili variabili, legando gli elementi per asindeto e, a volte, rafforzando l’elenco con un’esposizione anaforica. Ne è un esempio la lirica in cui in brevi e dense immagini si coglie con sguardo curioso e indagatore la particolare atmosfera di Palermo (Palermo è / una città senza mare / un buio splendore / una statua mozzata). Come si evidenzia nella prima bandella del libro, è proprio «lo sguardo l’elemento centrale» della raccolta e «può irradiarsi da una finestra, da un taxi o da uno specchio […] ma sempre indaga il mondo, si muove da un centro per inglobare dentro di sé tutta la poesia che si trova intorno».

 

Caterina Martino è arbereshe di Pollino di nascita, umbra di adozione. Ha studiato Lettere moderne con indirizzo storico-artistico, ha lavorato per anni nei musei di Assisi e Perugia e ora insegna Letteratura in un liceo artistico. Poiché non riesce a stare ferma, fa molte altre cose: si diletta di libri, cinema, teatro, si occupa di un’associazione culturale e racconta storie della sua città dall’alto di un’antica torre. Nelle capienti borse che usa portare con sé è possibile trovare (e perdere) numerosi taccuini ricoperti da una scrittura fitta e minutissima che va spesso a capo. Ha un bimbo che si chiama Adriano e una gatta che si chiama Nasochecola, e vive in un posto tra i tetti della città di Perugia. Ha pubblicato nel 2018 le raccolte illustrate da due meravigliose disegnatrici, le Grimm Twins, Itaca e Fjale per Gaele Edizioni. (dal risvolto di copertina)

 

Ombretta Ciurnelli