Alla periferia del tempo. Mistral di Ida Vallerugo

Scritte negli anni 1981/1982, con pochi apporti più recenti, le poesie sono sorprendentemente attuali

Gli ottantacinque testi in friulano rendono Mistral (Il Ponte del Sale, Rovigo 2010) un’opera imprescindibile per conoscere il mondo poetico e umano di una straordinaria poetessa che vive appartata a Meduno, piccolo paese del Friuli, e ha iniziato a scrivere giovanissima, prima in italiano, poi, dal 1979, in friulano ma di questo ampio lavoro poetico solo una piccola parte era stata finora pubblicata. 

Scritte negli anni 1981/1982, con pochi apporti più recenti, le poesie di Mistral giungono sorprendentemente attuali, contemporanee come ogni classico. Riferimenti personali, sociali, storici, letterari convergono nell’inquieta ricerca del senso di una vita che sia vera, movimento impetuoso come il vento omonimo ma necessario per cercare l’autenticità dentro di sé e dentro la scrittura: “i na sin in Arcadia ’ndulà che pinsèirs sfinîs / a replichèinin ceils, in Provenza i sin / chì daviergi ali indurìdi a è fadia granda. / (…) / La fadia da inventâssi un necessàri ceil / par gî da nô a nô, e magari incjantâssi inmò / iessint da l’anestesia dai dîs / a sisìli alêgri naturâls che tai voi a pàssin – non siamo in Arcadia dove pensieri sfiniti / replicano cieli, in Provenza siamo / qui aprire ali indurite è fatica grande. /(…)/ La fatica di inventarsi un necessario cielo / per andare da noi a noi, e forse incantarsi ancora / uscendo dall’anestesia dei giorni / a rondini allegre naturali che negli occhi passano”.
Compito arduo quello del poeta di cogliere il reale e le ombre amate, le proprie scissioni interiori (le mie vite prima del calmo nulla), la percezione che gli affetti siano presenze tangibili, che morte e vita appaiano a volte come modi intercambiabili di essere nel tempo, sperduti segnali dei vivi a noi nel buio. Chi cerca di percepire il mistero sotteso al mondo si muove ai margini di ragioni consolidate (“jo al gno cunfìn presious cul nuia – io al mio confine prezioso col nulla”), lontano da sicure convenzioni, in luoghi incerti dove “suspindûs i restàn, cjapâs in nô, e cidìns / come nassìnt, un poc esiliâs – sospesi restiamo, presi in noi, e silenziosi / come nascendo, un po’ esiliati”. Diventato esule ed eretico nel suo modificare il rapporto con il mondo e la divinità (Dio, eterna periferia di noi), il poeta è in grado di aprirsi a nuove direzioni, di sillabare di nuovo il mondo, di riflettersi in un’umanità migrante che viene privata di un luogo dove sentirsi se stessa, di riconoscere negli occhi di un ragazzo pakistano a Londra la luce della persona / che cammina lontana da sé / dentro a un sogno estraneo sognato da altri.
“Non è consueto ascoltare una simile solitudine così protesa all’ascolto di sé e del mondo, una disperazione così colma di speranza, un poeta così abbandonato al respiro del mondo”, commenta Franco Loi nella prefazione e le sue parole colgono appieno l’atmosfera che permea la poesia di Ida Vallerugo, consapevole della meta arcana della sua scrittura (una mano che scrive è solo / una mano che dà lineamenti al mistero chiaro) e pronta a condividere l’eretica marginalità di chi sente diversamente il mondo: “Essi dal dut divièrs. / Capî che soul in ce ch’a pòs piêrdissi / a è la sperancia – Essere del tutto diversi. / Capire che solo in ciò che ci può perdere / è la speranza”. In una percezione empatica che mira all’essenza di tutto ciò che osserva, anche attraverso il buio, e ad ascoltare anche attraverso il silenzio (la sola voce al mondo che m’incanta è la voce umana // E qui la voce manca), tutto viene inciso più a fondo attraverso una duplice visione che coglie l’intimo patire umano intriso da un’irrinunciabile utopia di verità (storia e utopia un solo vino) e di felicità condivisa. Utopia irrealizzabile se non per accenni e scorci ma che permane integra nel tempo, fondamento mitopoietico di una tensione umana e lirica per accordarsi al passo sospeso del tempo,così che ogni esperienza poeticamente attraversata acquista lo spessore di un’irrinunciabile aspirazione alla bellezza, al frammento di eternità insito nell’opacità del reale.  
Anna De Simone, che ha curato l’opera suggerendo interessanti spunti di lettura nell’ampia postfazione, scrive: “L’io dialoga con se stesso e con un tu indeterminato col quale condivide dubbi e angosce e in cui tutti possiamo riconoscerci. Ma il suo sguardo sembra spingersi oltre”. Ida Vallerugo sa affacciarsi fiduciosa a recondite possibilità, sa intrecciare la propria voce con chi esiste e chi non c’è più ma resta accanto, come le persone familiari o quelle anonime incontrate in paesi stranieri, i poeti scomparsi, l’indistinto Viaggiatore che giunge, ospite lungamente atteso ma che mai si mostra, il dio che ride nell’oscurità. Tutto è fluido e inarrestabile, il legame tra visibile e invisibile si mostra e si spezza costantemente e deve essere riannodato con dolore e speranza. La sua poesia è vorticosa poiché fa coesistere quanto appare lontano così che persone, città, avvenimenti, pensieri e ricordi trovano il loro momento di luce che li fa divenire immagini nitide nell’incessante mutare delle forme.
In Mistral la scrittura tende a modularsi in lunghezza, a dilatarsi in strofe più narrative per poi addensarsi in nuclei concisi e in versi isolati, come espressioni di più voci talora dissonanti; a seguire una prospettiva che si muove rapidamente, come zoomando da orizzonti ampi a primissimi piani, creando un senso di vertigine di fronte all’inatteso che emerge da una metafisica distanza. Lo stile asseconda un’espressione poetica complessa e di rara efficacia visionaria, non volutamente oscura ma difficilmente circoscrivibile. Insolite figure retoriche, ossimori spiazzanti, repentini pensieri, metafore improvvise, riferimenti colti mescolati ad una autentica pietas per chi è al margine, conducono in uno spazio instabile, a quel tendere di noi perfetto alla periferia del tempo dove cogliere insieme noto e sconosciuto per il breve tempo concesso dalla voce delle parole.
Poesia nomade, sempre in movimento ma radicata in un minuscolo paese reale, luogo originario, legame con la terra, gli avi, la lingua, il tempo, Poffabro luogo vero fuori dalle mappe / dove la neve cade in un silenzio mistico tibetano,fulcro che attira persone e dei, epoche ed eventi, passato e futuro in un unico cerchio, dove avvenimenti terribili della seconda guerra mondiale appena evocati scivolano sullo sfondo per lasciare il posto ai vetri che tornano ad appannarsi col respiro, alla luce che torna a illuminare / la parte del sogno che si può toccare. Seguendo il respiro di questa poesia è possibile percepire ciò che Ida Vallerugo suggerisce alla nipote durante una visita all’osservatorio di Greenwich che tante suggestioni ha saputo suscitare sul tempo umano e cosmico: “E i alciàn li mûsi lusìnti, simpri nô i sin / ma un atim di eternitât a si à visitât, Ana, / un bati di ali blancj pal scûr da li eri – E alziamo i volti lucenti, sempre noi siamo / ma un attimo di eternità ci ha visitato, Anna, / un battere di ali bianche per il buio delle ere”.
 
Nelvia Di Monte
 
IDA VALLERUGO è nata a Meduno, Pordenone, nel 1946. Ha esordito con la raccolta di liriche in italiano La porta dipinta (Pan Editrice, Milano 1968), seguita da Interrogatorio (Quaderni del Collettivo R., Firenze 1972). Soltanto nel 1979, dopo la morte della nonna, ha scelto per le sue poesie il friulano. È nata così Maa Onda (I quaderni del Menocchio, Montereale Valcellina, 1997). Nel 2001 è stata pubblicata Figurae (La barca di Babele, Circolo Culturale di Meduno) e nel 2004 Franco Loi ha proposto una antologia di liriche friulane in Nuovi poeti italiani (Einaudi, Torino).
Qui di seguito una poesia tratta da Mistral
 
Cjera
 
Strana a è snot la luna passàngj sôra
par stradi d’aria, chê sô smorfia di dea surprinduda
tal la sô stansa, abitùdin lusìnta fra pôc
come a la fignêstra o alciànssi sui tès
 
                   e su la planura.
 
        Ma al è il scûr laiù da la cjera a cjapâmi
e i cercj il lusour lontàn di una citât, li lûs
di una pîsta impruvisàda, l’agâr di un flum,
la flama di un cichìn, il ferâr di Eva ta la neif.
Scûr, soul scûr laiù i vêt di un mont finît
e come mai stât. Nêstri umani stagjòns.
 
E la cjera ch’a è la cjera a contrapònimi,
firìnmi, li sô mons pazienti, li catedrâls glaciàdi
no un pinsèir da lour, soul la vous dal vint
la vous uguâl, etêrna. I vedarài fra pôc in chel scûr
il fouc di gens pierdùdi che a nô a si segnàlin
e a sòflin su la flama, vuardànssi, discurìnt, scoltant
il vint, il rompissi intòr dai glâs.
E cun vô laiù i sòfli, a na pòs no durâ la flama
a na pòs no ârdi e âlta âlta ârdi si discurìn di nô.
Al è soul un sècul grant e barbar ch’al pàssa.
I na sarìn nô a vuardâssi ta li bòri ch’a si mòrin.
Soflàn, discurìn. Il pinsèir al è dut.
 
Dut al è il pinsèir. E come l’univers a pêsa.
 
 
TERRA – Strana è stanotte la luna passandole sopra / per strade d’aria, quella sua smorfia di dea sorpresa / nella sua stanza, abitudine lucente fra poco / come alla finestra o sui tetti alzandosi / e sulla pianura. // Ma è il buio laggiù della terra a prendermi / e cerco la luce in lontananza di una città, le luci / di una pista improvvisata, il solco di un fiume, / il fuoco di un cecchino, la lampada di Eva nella neve. / Buio, solo buio vedo laggiù di un mondo finito / e come mai stato. Nostre umane stagioni. / E la terra che è la terra a contrappormi, ferendomi, le sue montagne pazienti, le cattedrali ghiacciate / non un solo pensiero da loro, solo la voce del vento /
uguale, eterna. Vedrò fra poco in quel buio / il fuoco di genti perdute che a noi si segnalano / e soffiano sulla fiamma, guardandosi, discorrendo, ascoltando / il vento, il rompersi intorno dei ghiacci. / E con voi laggiù soffio, non può non durare la fiamma / non può non ardere e alta alta ardere se parliamo di noi. // È solo un secolo grande e barbaro che passa. / Non saremo noi a guardarci nelle braci che si spengono./ Soffiamo, parliamo. Il pensiero è tutto. // Tutto è il pensiero. E come l’universo pesa.
 
25-10-2010