Achille Pannunzi, un uomo vivo

Saggio critico di Giovanni Prosperi

 [giugno 2012] Achille Pannunzi, un uomo vivo, di Giovanni Prosperi, saggio critico, Edizione Cofine, giugno 2012, pp 48, euro 10,00

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ACHILLE PANNUNZI, UN UOMO VIVO è un saggio critico sulla figura e l’opera del poeta sublacense in cui è messa in luce la sua poetica che incarna il vissuto di un ‘luogo’ e sviscera in maniera passionale la quotidianità del principale centro della Valle dell’Aniene, in cui tutto avviene con sincerità e ipocrisia, con passionalità e ritrosia, con dolcezza e disincanto. La sua ironia e autoironia pervadono a tal punto la sua opera da rendere i suoi versi potentemente caratterizzanti i personaggi e il luogo, allontanandoli così dagli angusti confini di una rischiosa ‘cronaca provinciale’. Si leva così il canto sommesso ed epico di una Subiaco non più idealizzata, ma passata al setaccio di un osservatore moralmente vigile e però scevro da giudizi o pre-giudizi moralistici.
Il saggio di Prosperi ridefinisce criticamente la vita e l’opera di Achille Pannunzi, al di fuori degli stereotipi di poeta “comico” cui egli stesso, ma soprattutto i suoi numerosi quanto superficiali estimatori, hanno contribuito, sminuendo la sua poetica. E ci mostra un personaggio ed un poeta finora pigramente indagato, facendoci scoprire l’altra faccia di Pannunzi rimasta finora inesplorata.

Il libro è stato presentato alla Biblioteca Teatro Quarticciolo di Roma il 3 luglio 2012.

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NEL LIBRO                       

Achille Pannunzi, (1921-2007) è nato e vissuto a Subiaco, condividendo con molti suoi compaesani la sorte di pendolare a Roma. Negli anni ’40-’50 del 1900 fu centravanti in squadre di serie C, segnalandosi per i suoi 288 goal. Molto noto per le sue numerose composizioni in dialetto sublacense, pubblicò nel 1984 a Subiaco Na rattattuglia ’e versi. La raccolta è stata ripubblicata, con l’aggiunta di cinque poesie inedite, dal Comune di Subiaco nel 2007. Per la collana “Quaderni della Biblioteca Comunale” il Comune di Subiaco ha pubblicato nel 2001 la raccolta di poesie Versi a deotto pe’ Subbiacu” e nella stessa collana Versi diversi.

(…)
La natura viene interpellata, dapprima come anelito a qualcosa che solo la memoria sa restituire, poi con una riflessione amara, lancinante, finale. E la sete di una risposta, malgrado la lirica visione del reale, come “imago” propiziatoria, resta probabilmente inappagata

ju tempo passa
che mancu na saetta
quando che squarcia ju céo.

(da “Cillittinu”)

Sicuramente, oggi, in cui vengono, opportunamente e inopportunamente, riproposti i suoi testi poetici, nessuno sa più cosa fosse quel vivere, anzi, in un tempo di omologazione soporifera, quel vivere rappresenta il frutto di una “cultura subalterna” (A. Gramsci) e, di conseguenza, opera da far transitare per la porta di servizio.
E, invece, il popolo, nelle poesie di Achille Pannunzi, fa cultura e, forse, neanche lo sa.
L’influsso archetipo della sua umanità (humanitas da humus) rivive nella riacquisita memoria quell’incontro con l’altro da sé sopito dall’invasiva e volgare eccessività televisiva e dalla irrisione e dalla imbecillità consumistica. Scusate la durezza: ma me la impone la grande maestria del poeta di far essere le persone in quanto se stesse, proprio se stesse.
Le persone erano così nella vita come sono nella poesia.
“Lasciata per secoli a se stessa, cioè alla propria immutabilità e immobilità, quella cultura aveva elaborato valori e modelli di comportamento assoluti” (P.P. Pasolini).
“Oggi quel popolo non c’è più, c’è stato una sorta di genocidio e, quel che è peggio, i giovani sono divenuti larvali calchi di un altro modo di essere e di concepire l’essere” (P. P. Pasolini).
Si è perso molto, poi, all’improvviso, ti ritrovi che certa cultura o saggezza popolare la comprendono anche i giovani solo apparentemente ignari: è il miracolo della tradizione (da tradere) e della trasmissione orale.
La poesia di Achille Pannunzi, con l’umiltà dello spirito di servizio, ci restituisce, donandocelo, un patrimonio che è vita, che invoca dal fondo, che noi possiamo udire, ricordare, riprendendo il filo della matassa, ingarbugliata, sì!, per cui però possiamo ricominciare a narrare, a intercettare quel respiro che via via e sempre più prepotentemente riprende a vivere.
Nella sezione che, in Na rattattuglia ’e versi, va sotto il titolo di “Animali” possiamo ritrovare quella tensione “morale” tipica della tradizione delle favole e delle fiabe che dall’antichità usano le “bestie” per dire e parlare di vizi e virtù degli uomini.
Nella sezione “Senza rima” mi piace estrapolare l’intensa modernità della poesia “La rosa secca”, con quell’inquietudine essenziale e con quell’anelito di liberazione lirica, con quella grazia di un cuore puro che s’attarda di speranza, come certe profondità dolcissime di Cardarelli o della delicatezza spirituale di Betocchi, così umanamente vicino ad Achille.
Montale lo ritroviamo presente in alcune poesie di buio forte e, infine, spunta l’umore dolorante di Ungaretti, così unico e diverso, così determinato dalla sua drammatica vita, per cui, ad un certo momento, i paesaggi non commuovono più e la sua attenzione si ferma, insistente e non disperata, sulla sorte dell’uomo.
Alla stregua di Ungaretti, il cantore umanissimo di Subiaco, umanissimo umano, si avvede “de ’ssa vita tutta crua”. Era un entusiasta, altrove, Achille Pannunzi, eppure eccolo esperto serio e non serioso dell’umano soffrire:

Malingunìa e passiò
arénzunate
no nn’appaganu
chigliu strascicu de morte
ch’è lo suju.

(da “Suju”)

Ma il “niente” del terrigno nichilismo non ha riscontro nel nulla della solitudine umana, umanissima umana solitudine del “naufragar m’è dolce in questo mare”, della ciurma di marinai di Coleridge “che ha spezzato i legami con la divinità del creato”, ormai soli e nudi, come è solo e nudo Achille Pannunzi di fronte all’infinito illuminarsi di Dio. “La lotta è dura: il cammino della croce sbocca alla morte, ma come balzo alla Resurrezione” (I. Giordani).
Viene spontaneo il desiderio di associare la sua opera all’“Antologia di Spoon River” di E. L. Masters; è vero, appare inevitabile.
La speranza della “nuova avventura” (G. Prosperi) diviene per Achille “l’inizio di un viaggio nuovo e antico” (R. Mussapi) perché il poeta o un poeta “è essenzialmente colui che parla a nome e in onore di quelli che hanno calpestato” (R. Mussapi) i suoi stessi “vicuitti”. Allora i suoi versi incarnano il vissuto di un “luogo”, sviscerano in maniera passionale la quotidianità di una Subiaco in cui tutto avviene con serenità e ipocrisia, con passionalità e ritrosia, con dolcezza e disincanto.
(…)

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L’AUTORE                    

Giovanni Prosperi è nato nel 1939 a Subiaco (in provincia di Roma). Si è laureato in Architettura a Roma con Bruno Zevi. è coautore del volume Il Comprensorio Sublacense (Università di Roma La Sapienza, Facoltà di Architettura, Roma 1973) e autore dei volumi Padre Pio, la memoria (1999); Medioevo Aniense. S. Benedetto, i Benedettini e lo sviluppo storico-territoriale dell’area sublacense sino al sorgere dei comuni (2004); Il Sogno dell’Arte, il Novecento Pittorico Sublacense (2005); Un’infanzia a Subiaco (2006); Il culto romantico del paesaggio sublime. Subiaco nelle stampe d’arte del XVIII, XIX e XX secolo (2007).
Ha pubblicato inoltre sette raccolte di poesie: Maria di Nazareth (1995); Le Stagioni dello Spirito (1996); Le parole di Bernadette (1997); Il Filo d’Erba (1998); Corale dell’Umanità Aniense (1999); Pellegrinaggio al Sacro Speco di San Benedetto (2000); Edith di Breslavia (2003); Kerygma (2006).