Appunti di lettura, definisce in tutta signorile umiltà Vincenzo Luciani le sue recensioni, note critiche e analitiche sulla produzione letteraria di Poeti di paesi e di città (Cofine, 2022). Questi che leggiamo sono, invece, ritratti a tutto tondo “di autori noti ed affermati, di altri meno conosciuti, ma anche di alcune voci giovani e promettenti, tutti, per vari motivi, meritevoli di essere letti” (dalla nota introduttiva). Ciò che in sostanza ha spinto Luciani a raccogliere in un libro, organizzare le recensioni apparse a sua firma sul sito poetidelparco e sulla rivista trimestrale cartacea Periferie dal 1998 a oggi, è un caloroso invito alla lettura rivolto ai (pochi, molti?) “volenterosi (…) animati dal desiderio di provare il piacere leggere buoni testi di poesia”.
Tra le voci recensite spiccano intellettuali come Vincenzo Scarpellino (Roma, 1934-1999) del “Centro Romanesco Trilussa” e collaboratore della rivista Periferie, i cui sapidi versi satirici, politici e anticlericali in romanesco scuotono le corde di chi avversa la prepotenza e l’ingiustizia sociale; “Poeta de protesta”, Scarpellino, cresciuto alla scuola del Belli (“unico modello e maestro”) è voce di denuncia “delle piccole e grandi ingiustizie, dell’infingardaggine della burocrazia, dei soprusi dei potenti, dell’abbandono dei miseri”.
Alla sua persona è stato intitolato il premio annuale per poesie e stornelli inediti nei dialetti del Lazio e il Centro di Documentazione della poesia dialettale su intuizione e impulso del poeta, scrittore e critico Achille Serrao (Roma 1936-2012), del quale Luciani ci restituisce la profonda umanità e l’intensa attività critico-letteraria: “poeta delle periferie”, attivista culturale instancabile “nella periferia est di Roma”, luogo d’elezione in cui egli si riconosceva appieno – si legga l’intervista “Confessioni d’autore” sulla rivista pagine (2008, n. 54), in cui significativamente si dichiara “cittadino di un’area barbara metropolitana che corrisponde a ciò che sono quando vivo e quando sono in versi”. Ma il luogo delle radici è altro: Caivano (CE), sicché “dopo venticinque anni di pratica versicolare e narrativa in italiano, ecco riemergere il dialetto”: l’origine, l’altra periferia che è il Sud, fonte ispiratrice delle poesie da lui stesso definite “fuori luogo”.
Nella semplicità testuale dell’anconetano Fabio Maria Serpilli (1949), la malinconia dichiarata in titolo, Mal’Anconìa, è stato d’animo che affiora dall’intreccio d’una raccolta celebrativa la città natale in cui vive, e rivive, relazioni presenti e anche memoriali affidati alla maternità della lingua-imprimatur, il dialetto, in direzione ascendente/discendente, eredità ricevuta e da tramandare. Di Serpilli, “notevole la (…) ricerca della parola che suona e trasfigura, di una levità elegante” e sobria quanto l’anima della città e dei cittadini.
La scrittura pone in primo piano le persone semplici, con particolare riguardo ai sentimenti “della povera gente”. Dante Ceccarini, nato nel 1959 a Sermoneta (LT), è poeta che promuove il dialetto sermonetano “lungo strade nuove e poco battute, forzando il dialetto (adatto soprattutto a descrivere cose concrete e corporali) per esprimere pensieri, riflessioni che richiederebbero una lingua più dotata di termini astratti”. Ne La fòrma della malingonìa, accoglie la sofferenza e il dolore del mondo e mette in pagina immagini sorprendenti in quanto a originalità espressiva, accostamenti, sfumature. Di questo “poeta raffinato (…), che conosce e cura la metrica e il suono del verso, con rime all’interno di uno stesso verso” e frequenti allitterazioni, si coglie la presenza di “una (non molto frequente nei testi dialettali) religiosità non tradizionale (…) che parte da una contemplazione laica”.
I Pinoli, recente raccolta di Giancarlo Consonni (Merate, 1943), “indiscutibile maestro delle forme brevi e lievi” di “poesie che sorprendono e avvincono per la loro scorrevolezza (“frutto di duro labor limae”). La raccolta consta di cinque parti: nelle ultime tre, il “richiamo musicale” di alcuni titoli (“Sonatina”, “Interludio”, “Oratorio”), gli accostamenti di colori (il controcanto del fiordaliso, il giallo oro del grano), l’uva che «Si fa ronzio / (…)». Nelle sue composizioni prevalgono delicatezza e pudore, insieme all’attitudine all’ascolto – attento, empatico – del mondo intorno a noi, della natura e dell’uomo, di cose rimaste e cose dismesse.
Di Montorio Romano, Giovanna Giovannini (1935), tra i soci fondatori dell’Associazione culturale Periferie, ha all’attivo diverse raccolte dalle quali emerge “un ritmo segreto”, intimo, nutrito da limpidezza espositiva tendente a procedere con la grazia necessaria a diradare o contenere “le nebbie della solitudine, del dolore, della precarietà delle cose”. Versi brevi e incisivi, parole scelte, prive “da superflue aggettivazioni”, frutto di un lavoro di scavo e di riflessione. In fondo, ciò che diciamo ispirazione non è forse frutto della capacità di “sentire” e cogliere la complessità del nostro umano andare?
Viaggiatori per eccellenza, i poeti, sempre in cerca della “vena” che irrora la mente e il corpo; così per il poeta e linguista Claudio Porena (Roma, 1974), autore di sonetti con cui dire “Della vita di tutti i giorni, della vita da poeta” ne La vena impigliata, percorso di scrittura in lingua italiana cui si affianca la produzione corposa di “sonetti in dialetto romanesco (…) a seguito di un apprendistato lungo e strenuo (…) dal risultato sorprendente”, corroborato da studio e certosina ricerca, lavoro intellettuale confluito in pubblicazioni specifiche, tra cui il Manuale di linguistica romanesca, retorica e metrica.
Della catanese Cettina Caliò (1973), la raccolta in italiano La forma detenuta è oggetto di puntuale analisi e di apprezzamento per “l’ulteriore crescita formale, nel senso più pieno del termine, il suo saper trarre ispirazione da un quotidiano che è il suo, ma nel quale ci troviamo trascinati quasi per incantamento. E ciò è dovuto alla sua parsimonia espressiva, all’uso essenziale ed evocativo delle parole (…) selezionate con estrema cura”. Di tale autrice, che ha prodotto in dialetto catanese la silloge ancora inedita I paroli nichi nichi, si evidenzia, tra l’altro, “L’uso sapiente di immagini spiazzanti e sorprendenti (…), senza giri di frase e senza tortuosità”.
Due i titoli di Laura Rainieri (Fontanelle di San Secondo, 1943) esaminati in due distinte recensioni: Nessuno ha potuto sposarci (2001) e il racconto in versi La Bassa piana e le Fontanelle (2012). Nel primo, la memoria delle «belle zolle lucide e profonde» e «la pianura» che «si curva e si fa culla», canto di sradicamento- spostamento da una periferia all’altra, quella romana nella quale Rainieri si trasferisce per insegnare, e che la vede attiva “nel duplice impegno: quello femminista e quello letterario, spesso fusi assieme”, diretto a promuovere la letteratura femminile presso la “Casa Internazionale della Donna”. Nel racconto in versi la nominazione del ritorno verso la “fettaccia di terra”, il versificare eterogeneo diviso in capitoli, il dire di cose, persone e incontri ancora vivi: “l’interesse del poeta verte al presente e tanto fa con la propria memoria ed emozione da richiamare in vita tutto ciò che ha partecipato intimamente”.
Lino Angiuli (Valenzano, 1946) e il suo Ovvero, libro del 2015, di versi editi (qui rivisitate e modificate) e versi inediti, “sapientemente cucito dall’autore al quale (…) piace porre dei punti fermi sulla sua opera poetica perché la stessa sia ben compresa nelle linee di fondo”. Raccolta articolata per temi multipli, libro-summa di esperienze di vita, di riflessione sulla condizione umana. Così Luciani: “in uno dei Riassunti, sezione rapsodicamente autobiografica (…) in cui Angiuli, in vena di bilanci, ripercorre la sua vita di scorcio e di traverso, si legge, a un certo punto, un’icastica e davvero ‘riassuntiva’ dichiarazione (…) di poetica: «zappai mille parole per dare la parola alla zappa».
Di Subiaco, Benedetto Lupi (1928), già insegnante a Mogadiscio per circa cinque lustri, autore di una Geografia per la Somalia, di dispense per lo studio comparato dell’inglese-somalo-italiano per l’università somala e, in Italia, di molto altro ancora: nel “Profilo del poeta e autore teatrale”, Luciani sottotitola l’indagine accurata dei vasti interessi umanistici di un uomo e della sua “lingua segreta”, il dialetto sublacense del quale esita una Grammatica normativa, e Rime e Prose , Subbjacu (guida ai luoghi della storia, della geografia e toponomastica), il poema Le staggiuni, i giochi di parole di Sènza sènzo, e Da ari libri, traduzioni in dialetto di Subiaco di testi tratti da Tacito, Boccaccio, Manzoni, Fogazzaro e altri.
Del poeta, critico e saggista Manuel Cohen, L’orlo è la quarta raccolta, in parte «rielaborazione di poesie già pubblicate ma comunque sistemate in una nuova struttura significante». Lo stile di Cohen decisamente rigetta il “verso sciatto, pieno di buone intenzioni e dal contenuto denso di ‘pensieri nobili’ ma desolatamente banale sul piano espressivo”. La sua parola ha origine e consistenza nell’acutezza di uno sguardo che sa andare oltre, e perciò stesso dà corpo a una poesia concreta, di contenuto civile, di “dialogo con il lettore sull’attualità nella quale siamo immersi, sulla realtà che ci circonda, sui luoghi, sull’ambiente, sulle città”, in definitiva non soltanto sguardo ma attenzione, particolare “riguardo del paesaggio naturale, urbano e umano”.
Le numerose sillogi di Cosimo d’Amone (Francavilla Fontana), poeta in dialetto salentino, contenute in un cofanetto in sei volumi, Li vòci ti lu suènnu, parlano di presenze familiari e concittadine, filo conduttore del suo “fare poetico”, sorta di ‘racconto’ capace di “trasfigurare tutto un microcosmo, attraverso parole scelte ad una ad una tra quelle conservate gelosamente nel cuore, come solo può fare chi dalla propria terra è costretto ad emigrare”. E allora ecco le figure, i fatti, “momenti di vita, episodi realmente accaduti e vissuti, sempre filtrati dalla memoria”, resi in forma di ottonario ed endecasillabo, quest’ultima forma metrica adottata quando l’autore scrive dei “sogni, (…), dei canti e delle nenie e degli addii, delle danze e delle preghiere, degli sguardi e delle carezze, dei ritorni e delle partenze, quelle legate ai luoghi della sua infanzia e adolescenza”.
La lingua di fuoco e di radici di Maria Grazia Cabras (Nuoro, 1954) apre a un mondo magico popolato di fate, maghe, spiritelli in Bambine meridiane, libro bilingue, la prima parte in lingua italiana presenta “composizioni tutte brevi e di versi brevi (spesso trisillabi, con cui ama concludere più di un componimento), in cui frequenti sono gli interrogativi, rari, essenziali e sorprendenti gli aggettivi, poesie che si aprono a subitanee accensioni”; in dialetto nuorese la seconda parte, poemetto evocativo e coinvolgente da cui emergono “riti e miti e turbate memorie infantili, popolate di presenze di defunti e del loro culto”. La scrittura di Cabras è qui “caratterizzata da una lingua più terragna e carnale, da versi estremamente lunghi”: memoria del tempo e dei timori di cui l’immaginario infantile si nutre.
Irreale popolato da Streghe, spiriti e folletti, libro di Maria Pia Santangeli, viaggio nell’«immaginario popolare dei Castelli Romani e non solo», in cui sono descritti tutti gli spaventi dell’infanzia, personificati dall’orco, dagli spiriti, dalle anime dei morti e altre entità invisibili, “sagacemente selezionati dalla Santangeli” la quale intesse “con una prosa essenziale ed efficace”, un racconto a più voci o capitoli dedicati (Streghe e pantasime; Misteriosi racconti di streghe, gatti e scope; Fantasie terrificanti, tenebrose e solari, diavoli, lupi mannari e u grassu magru; Rimedi contro la paura; L’Anime Sante aiutano; Folletti; Chiocce d’oro, tesori nascosti e briganti; Spiriti; Alla fine bisognava andare a letto).
Prosa in forma e sostanza di poesia purissima, Entro a volte nel tuo sonno dello scrittore e traduttore di romanzi Sergio Claudio Perroni (Milano, 1956 – Taormina, 2019), “libro di chevet” straordinario e intenso, di stupende dediche/parole d’amore in versi per la moglie Cettina Caliò “(nel volume proposti in corsivo per distinguerli dagli altri temi importanti e vari)”, composizioni in parte riportate da Luciani, tra cui questa: Ora prendo un foglio e ti disegno, prendo un libro e ti / romanzo, affitto un orizzonte e ti paesaggio, non è giusto / lasciarti non detta, non ha senso tenerti sottintesa, è uno / spreco assistere al tuo viso e non farne un dipinto da portare / appeso al cuore.
Anche Max Ponte, nato nel 1977, scrive del sentimento che muove il mondo in Ad ogni naufragio sarò con te (e 56 poesie d’amore), libro che intesse poesia d’amore e poesia civile, intanto che quasi inermi si assiste al naufragio “dell’umanità di questi anni, partendo dai migranti arrivando sino alla pandemia, passando attraverso le nostre vite personali”. Il poeta rivolge all’altro da sé la promessa di umana solidarietà, di partecipazione: Tu sappi che / ad ogni migrazione / ogni isola / ogni virgola / ogni Lampedusa / ogni ipotenusa / ogni viaggio / ogni naufragio / nei relitti del tempo / fra coralli assassini / fra mercanti di schiavi / e natanti ferini / io sarò con te. Autore dalla vena robusta e dotato di ironia e autoironia “con cui spesso egli attenua e doma i picchi emotivi”, asciuttamente affronta il naufragio sentimentale: “Ti lascerò in eredità / tutte le mie poesie / quelle dove ho amato te / e chi ti ha assomigliato. / Ti lascerò in eredità / tutte le mie poesie / alla fine dei giorni / sarà come averti / sposato”.
Per Maurizio Rossi (Roma, 1952), la vita quotidiana è distinta in due tempi, La veglia ed il sogno, raccolta di versi nella quale “prevale il senso di estraneità di un vissuto ormai definitivamente alle spalle e l’estrema difficoltà a misurarsi con un presente e un futuro sempre più all’insegna della estrema velocità”, e l’esistenza si compie, quasi straniata “tra coni d’ombra / e rotondità di luce, / rimescolando sul fuoco vivo / anni e domande / e soluzioni antiche / per distillare il vero”. Nella raccolta l’autore “prende in esame il filosofo (L’alchimista del pensiero / insegue la mutazione) senza però sottrarsi all’empito lirico di altre sue composizioni, anche quelle rivisitate o revisionate, ripulite del superfluo per raggiungere “ritmo e incisività con una diversa disposizione”, come emerge dal confronto tra il prima e il dopo a opera dello stesso Luciani.
Di ispirazione cristiana L’infinita ricerca di Angelo Mundula (Sassari, 1934-2015), poesie-preghiere, breviario per giungere alla sapienza interiore, e per raggiungere e toccare l’anima profonda e misteriosa della sua Sardegna «isola impareggiabile». Luogo amato e riscoperto anche attraverso lo studio della letteratura cosiddetta minore di “poeti e scrittori sardi trascurati dalla cosiddetta grande critica, con una particolare attenzione ad autori contemporanei”. Uomo dedito a “vaste e prolungate letture” Mundula accorda fiducia al potere della parola, ai libri-compagni, alle molte voci e storie, soprattutto è uomo di fede nel Verbo che è al principio / di ogni verbo. Ha pubblicato in italiano e in dialetto,
Rita Gusso (Caorle,1956), tra cui l’opera tri-partita In-canto, in larga parte frutto di un lavoro di perfezionamento, rivisitazione, riscrittura di testi; già in titolo è la poetica d’un libro nutrito da incantamento visionario, incantesimo nato dal “canto di un dialetto estremamente musicale e la coralità delle voci (…) dei personaggi rivisti con la verginità degli occhi di una bambina”. Luciani, nel suo articolato studio dei precedenti lavori poetici, alcuni revisionati, agevola per i lettori il confronto testuale ante/post; nella stesura finale è ben presente la magia creativa, la sapienza del fare “a testimoniare il lavorio dell’Autrice”.
Nelle pietre di Giovanni Di Lena, nato nel 1958 a Pisticci, smarrimento e fors’anche incredulità “di un poeta “civile” che assiste amareggiato alla situazione attuale dell’Italia e del mondo e che tuttavia intende resistere all’andazzo che spinge verso il ripiegarsi all’accomodamento conformistico e opportunistico”. Già la dedica «ad Elisa Claps e Ilaria Alpi, a Giulio Regeni”, è pensiero e atto di devozione a tutte le vittime della fredda follia fratricida che impregna il pianeta; l’autore si oppone al silenzio, alla dimenticanza e all’indifferenza facendo rumore, combattendo, se così si può dire, con le dure, appuntite e scelte con cura “parole-pietre di cui si compone la silloge” stilisticamente resa in una nudità espressiva diretta a colpire “obiettivi molto precisi”.
La raccolta Xhiatu Sicanu (2016) di Mario G. B. Tamburello, milanese di origini siciliane, “conferma le premesse positive delle due precedenti”. Si tratta, come dichiarato dall’autore, di un’«esperienza solitaria» (…) divenuta «inevitabile, indispensabile, vitale» necessità di dare forma e fiato ai “pensieri sciolti che nascono dalla distonia rigida del corpo, espressione talvolta dell’angoscia che morde e talaltra della rassegnazione, altre volte ancora della speranza, (…), della consapevolezza che ancora (…) ci sono cose da dire” da ‘sentire’ e da cogliere della propria travagliata esperienza esistenziale”. Se Tamburello ha trasferito “lo scrigno ereditato delle parole originarie” nel luogo dove è nato, ciò non toglie ch’egli tenti di innestare e “far conoscere il vitigno nel ‘Continente’, fare assaporare “parole ed espressioni in quel dialetto, (…), del ricordo vivo della tradizione familiare” in terra di Sicilia. Terra che signa lu mè essiri, la mè storia, lu sentiri e lu fari.
Anna Maria Curci è nata a Roma, dove insegna lingua e letteratura tedesca. Opera incerta, succoso frutto di un decennio di scrittura, è il libro di cui Luciani argomenta con acutezza e sensibilità intellettuale. Di questa autrice impegnata in molti versanti della letteratura, tra cui l’attività di traduzione dalla lingua tedesca, Luciani indica l’atteggiamento di una pazienza compositiva e di predisposizione all’ascolto insieme alla capacità di vedere oltre l’informe, il caos rappresentato dalle pietre disuguali cui dare ordine, assetto: pietre di costruzione “selezionate e poi interconnesse con sapienza artigianale che bada alla sostanza senza trascurare la bellezza”. Una ricerca meticolosa, attenta, condotta “Fra tradizione (rispetto, lettura e comprensione dei maestri) e traduzione (compenetrazione e riappropriazione di testi poetici) e perenne (…) studio delle voci più interessanti della poesia di ogni tempo e luogo”. Dare forma all’incerto è perciò azione straordinaria, è come leggere versi all’alba / salutare maestri / nel vento freddo / dell’oscuramento. Militanza civile in versi e in fatto: impegno costante contro «brutalità, oblio, menzogne, triade elevata a esercizio di potere». Senza enfasi né retorica, come del resto anche in questa opera “aperta al mondo, e non reclinata sul proprio ombelico (come spesso accade tra i poeti d’oggigiorno)”.
Nelle poesie in vernacolo ruvese Tène u rizze la lìune di Pietro Stragapede, il rapporto tra l’uomo e il tempo è mediato dal cielo, dalla luna, dalle sue fasi, da come essa appare, ed è, di stagione in stagione. “Come se il cielo fosse uno di famiglia”, come se l’infinito buttasse un occhio quaggiù e intrattenesse con noi miseri umani un colloquio intimo e personale. E ancora: “L’unione mistica natura-uomo”, la “carnale (…) terragna sensualità”, “il mondo contadino”, la terra-madre Puglia “sono un punto fondante nella poetica di Stragapede”, scrittore di componimenti che ci ricordano il favoloso tempo d’una rimpianta, e per niente banale, semplicità del cuore.
Anche per il poeta e fotografo Valerio Agricola (Ischitella, FG 1986) il rapporto con la terra è fondante: si dichiara aggrappato a Ischitella come una pianta di fico / incastonata tra le mura, appena un distico tratto da una delle sue tante e splendide poesie, distico che già da solo molto dice, a conferma dello spirito che permea la raccolta La terra data: anzitutto la volontà di testimoniare “la profondità delle sue radici in quel “Garganus Mons” (titolo di una sua mostra fotografica)” al punto che, assieme agli studi di Scenografia, ha avvertito “la necessità di una attività pastorale che lo ha portato a vivere dentro ai modelli di vita campestre e a contatto con antichi usi e tradizioni che formeranno in maniera determinante la sua anima poetica” dotata di potenza lessicale, sorretta da un “lavoro di levigatura della parola”.
L’ “Incontro con la poesia di Renato Filippelli” (Cascano di Sessa Aurunca, 1936 – Formia, 2010) è per Luciani motivo di rinnovato coinvolgimento emozionale per un autore “riscoperto” la cui opera omnia “Tutte le poesie” a cura di Fiammetta Filippelli, è sì “contrassegnata da un profondo amore filiale” (di Fiammetta e di Pierpaolo), epperò allo stesso tempo “va detto, a scanso di equivoci, che la parentela e l’affetto non fanno velo al giudizio critico. Le raccolte che compongono il volume coprono cinque decenni di attività poetica”, e il libro certamente agevola l’immersione nella scrittura-viaggio esistenziale di un poeta prolifico e intenso.
Leone Antenone (Roma, 1981) poeta e intrattenitore attraverso la parola che si unisce al gesto teatrale, giocoliere poetico in quanto a libertà di espressione irrobustita da “una manciata giusta d’ironia”, capace di improvvisare giochi linguistici per giocare il gioco serio della poesia con le “dialetture”, neologismo usato per “definire le letture di testi in dialetto”; le sue performance , curate con precisione, sono fonte/nascita di “Un momento magico di cui solo il gioco della poesia è capace di suscitare la ri-creazione”, osserva Luciani, che del metodo “antenoniano”, in scrittura e rappresentazione scrive nella sua godibilissima e coinvolgente recensione. Si tratta della poesia-palloncino, forma metrica inventata da Antenone, il quale “utilizza la tecnica del rondò italiano, una composizione in quartine rimate e incatenate. Ogni quartina è a rima alternata e l’ultimo verso rima col primo della strofa seguente, per cui ciascuna rima risulta ripetuta quattro volte”.
Nel dialetto bergamasco della Val Seriana, Maurizio Noris (Albino,1957) promotore socioculturale “ci regala due piccole eleganti raccolte”, Angej (Angeli) e Zögadùr (Giocatori), edite entrambe nel 2012. Luciani riporta a tale proposito la lettera che il poeta Serrao pochi giorni prima di morire aveva inviato a Noris. Ne riportiamo un assunto critico condiviso da Luciani, che sulla poesia di Noris aveva argomentato con l’amico Serrao, e con lui convenuto sul valore letterario dei due libri: “Maurizio forza le maglie dell’immaginazione, attraverso una “densa” aggettivazione. Ancora Luciani: “splendida poesia nuova che non mi pare abbia eguali e che ci viene dalla lontana “separata” bergamasca”.
Del poeta-editor Maurizio Casagrande (Padova, 1961), Co ’a scùria (A colpi di frusta), “libro da leggere con molta attenzione”, “volume accurato in ogni sua parte” che nelle pagine finali “presenta una cronistoria minima, alcune note ai testi, una nota sul dialetto ad opera del poeta (…)”. Molte le sillogi pubblicate da Casagrande, tutte “in dialetto, anche se il suo italiano è eccellente e lo dimostra nelle traduzioni ‘contrastative’ e non letterali dei testi” dati alle stampe, tratto peculiare di un autore che decisamente “Rinuncia a ritmi ricercati” e alla metrica, e che utilizza “rime finali e al mezzo che danno sonorità alla sua corrente di pensieri”.
Nota biobibliografica
Vincenzo Luciani (Ischitella, 1946), emigrato giovanissimo in Umbria, poi a Torino dove si occupa di giornalismo, consigliere comunale dal 1971 al 1975 nel capoluogo piemontese, si trasferisce a Roma e qui svolge diverse attività (giornalista, editore, poeta, promotore ed animatore culturale, sociale e sportivo). Dirige il mensile Abitare A, da lui fondato nel 1987, e la rivista trimestrale di poesia Periferie. È del 1985 il primo libro di poesie in lingua Il paese e Torino (Roma, Salemi Editore). Con le Edizioni Cofine ha pubblicato: Vocabolario ischitellano (1994); Ischitella. Guida storica, proverbi, detti, filastrocche, indovinelli e soprannomi (1995); I frutte cirve. Poesie in dialetto garganico di Ischitella (1996); Poesie e canzoni ischitellane (1996); Frutte cirve e ammature. Poesie dialettali (2001); Il grano-il pane-la cruedda (2002); Tor Tre Teste ed altre poesie:1968-2005, in lingua e in dialetto (2005); La cruedda (2012); Straloche/Traslochi (2017); Vanzature/Avanzi (2020), in dialetto. Dal 2005 al 2012 ha condotto, anche con l’aiuto di collaboratori, ricerche sui dialetti del Lazio, i cui risultati sono confluiti in otto volumi. Nel 2020 le Edizioni Cofine hanno pubblicato Vincenzo Luciani, poeta editore (saggi critici a cura di Loretta Peticca, Maurizio Rossi, Ombretta Ciurnelli, Rosangela Zoppi e Anna Maria Curci).